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“Pechino val bene una messa?” Non se l’officiante è il Partito

Aggiornamento: 4 apr 2020


Articolo tratto dal sito www.geopolitica.info a cura di Fabrizio Bozzato

E’ opinione comune che, per la Santa Sede, stabilire relazioni diplomatiche con la Repubblica Popolare Cinese (RPC) rappresenterebbe il raggiungimento di un obiettivo storico. Sul piano internazionale, ciò permetterebbe alla Sede Apostolica di avere rapporti formali e interloquire ai massimi livelli con il governo della seconda potenza mondiale. In Cina, la normalizzazione diplomatica permetterebbe ai quasi 7 milioni di cattolici fedeli a Roma – ma non “approvati” da Pechino – di emergere dalle catacombe della clandestinità e riunirsi ai 5,3 milioni inquadrati nella Associazione Cattolica Patriottica Cinese, sanando così decenni di dolorosa dicotomia. Inoltre, la normalizzazione delle relazioni potrebbe far diventare quelli che oggi sono spiragli di evangelizzazione una porta aperta sull’orizzonte spirituale del gigante asiatico.

Per la Cina di Xi Jinping, normalizzare le relazioni con il Vaticano sarebbe un successo d’immagine e diplomatico: la Santa Sede, soggetto di primo rilievo sulla scena internazionale, si aggiungerebbe al folto gruppo di stati che, in ossequio al principio dell’una e una sola Cina, riconoscono la RPC e non la Repubblica di Cina (nome ufficiale di Taiwan). Sul fronte interno, l’immissione dei cattolici sotterranei nell’alveo della giurisdizione statuale eliminerebbe quello che le autorità vedono come una zona grigia religiosa ed ideologica, e darebbe al Partito Comunista Cinese (PCC) un’utile sponda per mantenere la pace e stabilità sociali in un paese dove, nel 2030, il numero dei cristiani, inclusi i cattolici, potrebbe arrivare a 240 milioni. In aggiunta, il rapprochement con la Santa Sede contribuirebbe a dare sostanza e credibilità alle affermazioni del governo di Pechino riguardo all’esistenza di libertà religiosa in Cina. Sulla base di questi elementi, quindi, entrambe le parti avrebbero motivi per finalizzare in tempi rapidi il dialogo che, da almeno un decennio, scorre come un fiume carsico tra il Palazzo Apostolico e quelli intorno alla Città Proibita. Tale flusso dialogico emerge sempre più spesso in superficie attraverso iniziative simboliche ed ottimistiche esternazioni papali. Papa Francesco infatti, raramente si lascia sfuggire l’occasione di parlare allo scriba – cioè ai media – perché l’imperatore intenda. Per esempio, di ritorno dal suo recente viaggio in Asia Sudorientale, Bergoglio ha ribadito il suo vivo desiderio di visitare la Cina. «Mi piacerebbe, non è cosa nascosta» ha detto alla stampa pochi giorni fa.

Quale sarebbe, dunque il prezzo per staccare il biglietto per entrare nella Grande Sala del Popolo di Pechino? Sostanzialmente, piegarsi alle due condizioni che l’interlocutore cinese irremovibilmente pone alla controparte vaticana: 1) rompere le relazioni diplomatiche con Taiwan e 2) non interferire negli affari interni della Cina, nemmeno in nome degli affari religiosi. Ne deriva che, come in un contratto di franchising, la Santa Sede, pur rimanendo titolare del marchio, dovrebbe cedere il controllo della vita ecclesiale della Chiesa in Cina al PCC, derogando anche al principio della successione apostolica in forza del quale i vescovi sono di nomina pontificia. Oltre ad accettare il cattolicesimo “con caratteristiche cinesi”, la Sede Apostolica, ancor prima di sedersi al tavolo negoziale, sarebbe obbligata anche a recidere il legame diplomatico con Taiwan. Chiaramente, le conseguenze di camminare sotto tali forche caudine sarebbero profonde sotto i profili dottrinale, politico, diplomatico e identitario-narrativo. In ultima analisi, quindi, l’interrogativo che si pone al Soglio Petrino, alle gerarchie cattoliche e ai fedeli è questo: Pechino val bene una messa? Ironicamente, un forte suggerimento sulla risposta a questo quesito viene proprio dal Celeste Impero. Infatti, gli astuti leader cinesi, oltre a rimanere granitici nelle loro richieste, per scandire il dialogo con la Santa Sede usano la tattica della sauna nordica, nella quale si alternano getti di vapore caldo e catini di acqua gelata. Il risultato della sinergia di gesti di apertura e punitivi messa in atto da Pechino è simile al gioco dell’oca: si torna sempre alla casella di partenza, come dimostra il contrappunto tra l’annuncio dello scambio di opere d’arte a fini espositivi tra musei vaticani e cinesi nel 2018 e la, quasi simultanea, proibizione governativa alle agenzie di viaggio cinesi di mandare gruppi di turisti a visitare il Vaticano e la basilica di san Pietro.

In politica internazionale, la poesia di un discorso, di un concerto o di una mostra d’arte, è solamente la prefazione alla prosa dell’azione diplomatica. Per ora, la Cina – terra di antica tradizione letteraria- si limita a offrire versi che, repentinamente, si mutano in poesia d’invettiva. A volte, sono gli esperti a sbagliare, anche di proposito, la traduzione dal mandarino al latino. E’ il caso dell’articolo che il Global Times, espressione del Comitato Centrale del PCC, ha dedicato alla recente visita papale in Myanmar. Alcuni osservatori in planata pindarica libera hanno voluto interpretarlo come un invito ufficioso al Pontefice argentino a visitare la Cina, per venire poi smentiti dal Papa in persona, che ha dichiarato: «Il viaggio in Cina non è in preparazione, state tranquilli.» Per contrasto, le relazioni tra la Santa Sede e Taiwan sono ottime, e vanno ben oltre i gesti simbolici, essendo radicate nella piena libertà religiosa garantita ai cattolici dell’isola e corroborate dal comune impegno umanitario internazionale.

Pechino val dunque una messa? Non se l’officiante è il Partito Comunista. Secondo il modello partito-centrico enunciato dal Presidente Xi Jinping 19mo congresso nazionale del PCC, celebrato lo scorso ottobre, «Est, Nord, Sud, Ovest e Centro. Il Partito guida tutti.» Nella messa di “rito patriottico cinese”, quindi, Santa Romana Chiesa si collocherebbe non dietro, ma accanto all’altare, in veste di chierichetto turibolante che, dopo attenta selezione da parte della Associazione Cattolica Patriottica Cinese, arde l’incenso al dragone rosso. Una analogia ancor più calzante è forse quella del parroco e del sacrestano. Secondo il modello “patriottico e democratico” di Pechino, la Santa Sede dovrebbe limitarsi a fare il sacrestano, non il parroco. In altre parole, la vita ecclesiale dei cattolici cinesi dovrebbe essere regolata dal Partito, che fungerebbe simultaneamente da parroco, vescovo e patriarca autocefalo. Mentre la Sede Apostolica sarebbe relegata a un ruolo ancillare e subalterno, magari a spolverare con solerzia le foto del Romano Pontefice – icona innocua e decorativa – appese in sagrestia.


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